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Claudio Olivieri è nato a Roma nel 1934, vive e lavora a Milano

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Sono nato a Roma nel 1934. Mio padre era un maestro elementare e io in quegli anni ricordo le folle di piazza Venezia, il biancore di quel monumento là in fondo, il rumore dei tram che ci portavano ad una scuola materna sull'Aventino, le olive verdi che mio padre mi comprava per la strada, dentro un cartoccetto di carta gialla.
Con la morte di mio padre e la guerra ormai imminente, fu necessario mettersi in viaggio per andare a Mantova, luogo d'origine di mia madre.
Treni lenti, stazioni dai nomi mai sentiti, Orte, Terontola, Arezzo.
Fuori, un mondo quasi senza rumori, paesaggi profondi, rare luci nella notte, voci dagli accenti che mutavano mentre risalivamo verso nord.
Abitavamo nel vecchio Ghetto di Mantova, per via del nonno ebreo, nel cuore antico di quella città così particolare, chiusa dai suoi laghi, anch'essa, allora, silenziosa e raccolta.
Ricordo i cinque anni della guerra come un tempo lunghissimo, con estati abbaglianti e inverni gelidi e interminabili, le fughe nei rifugi e le scorribande per le campagne quasi deserte, le paure e la confidenza con il pericolo. I ponti crollati, le piene terribili del Po, le sirene e i lampi della contraerea, le notte cieche, i camion tedeschi e quel giorno in cui, sulla mia bicicletta, mi sono visto venire incontro quaranta panzer diretti verso il fronte, dove la loro mostruosa potenza si sarebbe dissolta.
Credo che la mia memoria si sia formata lì, abbia imparato lì a preservare ciò che è essenziale.
A guerra finita, la vita riprese come stupefatta da una normalità ritrovata.
Nell'irripetibile libertà di spazio di quel tempo, i laghi erano il territorio dell'estate, il luogo lustrale di una natura ancora intatta.
Dopo il ginnasio, Milano, la rivelazione dell'Arte, la cultura, gli incontri.
Gli anni del fervore - dagli anni Cinquanta al 1970 - con le grandi mostre, le polemiche, le incazzature sono ormai più lontani della stessa guerra.

Potrei parlare di come mutava il clima del nostro mondo col succedersi delle Biennali, di come agli artisti venisse riservato un posto sempre più marginale, di come pian piano abbiamo visto prevalere la funzione degli organizzatori, di come le opere siano diventate sempre più "accessorie" rispetto al progetto sistematore di quella cosa che io non riesco più a chiamare critica.
Di questa Italia sempre più dipendente, sempre più subordinate ad un modello prevaricatore che ci spaccia come assoluto ciò che è solo convenzionale.

Di questa orgia della banalità, del "just in time", neanche fossimo scorte di magazzino da smaltire al più presto.  Non me la sento di rammaricarmi più di tanto, ma mi rattrista il declino di Milano, la perdita di quel suo spirito curioso, avventuroso, solidale, per far posto al deserto modaiolo di oggi.
Io sto nello studio e mi domando da dove vengano queste ombre colorate che ogni tanto accendono la mia mente, cosa mi spinge a tentare di dare forma e pienezza a ciò che a volte temo sia un puro fantasma.

 E' lontano il giorno in cui ad Olimpia Prassitele mi fece capire che la luce non si posa sul mondo ma lo rivela fondandolo; io, da quel giorno, vivo di quella sorgente, sempre temendone lo svanire, inseguendone il bagliore, perdendone le tracce, per poi, brancolando rinvenirle e continuare a vivere.

Claudio Olivieri