Derive 1 Wed 09 July 2025 - Thu 31 July 2025
Composta dal prefisso de-, che indica allontanamento, e da rivus, corso d’acqua, il suo significato letterale era deviare un flusso. In senso figurato, è passato a significare il tracciare l’origine di un’idea, di una parola. Ma questa dualità tra allontanamento e fonte non è solo latina; è un archetipo linguistico che attraversa la nostra cultura. Risuona nel greco antico parapherō, “portare altrove, deviare”, e affonda le radici nella sorgente stessa del linguaggio, nella radice protoindoeuropea (s)reue-, “flusso”, che lega il rivus latino a un concetto primordiale di scorrimento, eco anche del sanscrito nayati, “condurre”. La mostra esplora proprio questo campo semantico millenario: la deriva come condizione esistenziale e strategia creativa fondamentale per abitare il nostro tempo. Un’arte del muoversi in un mondo che ha perso le sue rotte ma non la sua corrente Prima di essere un concetto, la deriva è un’immagine archetipica, un potente racconto che l'umanità ha usato da sempre per narrare sé stessa. È la deriva cosmica di Manu, il progenitore indù la cui arca fluttua sulle acque della dissoluzione per approdare a un nuovo inizio, fondando un nuovo ciclo del mondo. È la deriva iniziatica di Odisseo, il cui decennale e tormentato vagare tra isole magiche e mostri marini si rivela un inesorabile percorso di profonda trasformazione interiore. È la deriva del Fato che salva il piccolo Mosè, affidato alle correnti del Nilo per sfuggire alla morte e andare incontro al suo destino di guida. Questi miti, impressi nel nostro immaginario collettivo, ci insegnano che la perdita della rotta prestabilita non è quasi mai una fine, ma la premessa per la scoperta di un destino più vasto. Sono le antiche mappe dell'errabondare, che ci ricordano come il perdersi sia spesso l'unica, vera condizione per ritrovarsi. Il XX secolo traduce questo archetipo mitico in uno strumento di indagine della realtà. È il flâneur descritto da Walter Benjamin, osservatore solitario che si perde nel labirinto della metropoli moderna, leggendone i segni nascosti. Ma è soprattutto con l'Internazionale Situazionista che la deriva diventa una pratica consapevole e sovversiva. La dérive teorizzata da Guy Debord non è più un semplice passeggiare, ma una tecnica di vita, un atto politico per riappropriarsi del tempo e dello spazio. È lo strumento della psicogeografia, lo studio delle influenze emotive che i luoghi esercitano su di noi, un modo per combattere l’alienazione della società dello spettacolo. Se per Debord, però, la deriva era ancora una scelta, un atto di resistenza, oggi essa sembra essere diventata la nostra condizione permanente. Come diagnosticato da Zygmunt Bauman, viviamo in una "modernità liquida", un’esistenza fluida e precaria, priva di punti di riferimento stabili: siamo tutti navigatori in un mare di incertezze, chiamati a tracciare rotte individuali in assenza di mappe condivise. In questo scenario, le artiste in mostra trasformano la deriva in un rigoroso metodo di indagine. La loro è una navigazione che attraversa la psiche, la storia e la materia. La deriva di Elisa Schiavina è un viaggio psicoanalitico che, attraverso un "dispositivo ludico", esplora la stratificazione della memoria nel passaggio cruciale tra infanzia e adultità. Le sue opere, popolate da creature fluide e "giocattoli mentali", trasformano icone pop in vasi di Pandora, creando un campo di stimoli che non dà risposte ma attiva le domande e l'inconscio dello spettatore. Questa densità si evolve nella ricerca di Silvia Trampus, la cui deriva nasce dall'atto del fare, dal riuso di materiali carichi di storie. I suoi grovigli di corpi e oggetti riflettono il sovraccarico del mondo, ma l'accumulo è interrotto da delicati elementi floreali, punti di narrazione che permettono allo sguardo di trovare un’estetica della fragilità, una bellezza inquieta che affiora dal caos. A questo caos materico fa da contraltare la ricerca di Gabriella Pugliano, che invita a uno “smarrimento consapevole” come forma di resistenza. Le sue opere non sono racconti, ma varchi sensoriali che guidano verso luoghi inesistenti eppure familiari. Sono soglie dove il flusso del quotidiano si sospende, spingendo l’osservatore a “sostare” nel mistero, in quel limbo dove l’indicibile conta più di ogni risposta e l’immaginazione è libera di perdersi. L’invito allo spettatore si fa co-creativo in Silvia Simonetti, che concepisce l'arte come un viaggio nell'Es freudiano. La sua pittura, nata da un flusso di coscienza, si offre come superficie per la pareidolia: è l’inconscio di chi guarda a "derivare" sulle forme ambigue, completando l’opera con il proprio linguaggio interiore. Dalla psiche si passa alla memoria della cultura nel lavoro di Elisa Nepote; la sua è una deriva quasi scientifica nella storia del blu, indagato come “fatto sociale” sulla scia di Michel Pastoureau. Questa navigazione a ritroso, che parte dalle variazioni degli Ushabti egizi, si traduce in superfici pittoriche solo apparentemente monocrome, invitando l'occhio a perdersi in infinite e sottili variazioni, strati di tempo e di significato. Infine, il viaggio si compie nella materia con Alice Romano, la cui traiettoria artistica è essa stessa una deriva: un consapevole abbandono di un approccio pittorico tradizionale per un dialogo alchemico con il rame. Qui, il caos controllato del fuoco e dell'ossidazione diventa lo strumento per materializzare l'aura di guerrieri alter-ego provenienti da un immaginario interiore, rendendo tangibile la potenza del cambiamento. Questa mostra, dunque, non si offre come un punto d’arrivo, ma come un imbarco: la prima tappa di un più ampio percorso espositivo. Derive 1 è un invito a praticare la propria, personalissima deriva tra le opere e gli spazi; a seguire le correnti emotive che esse generano, ad abbandonare i percorsi più battuti per creare connessioni inattese, a compiere un piccolo atto di psicogeografia affettiva. Perché forse, nell'accettare di aver smarrito la vecchia mappa, risiede la possibilità di scoprire non solo mondi nuovi, ma anche un nuovo modo di abitare il nostro. Un modo fondato non più sulla sicurezza di un approdo, ma sulla libertà di navigare a vista.